Stefano Biancu*

 


Abstract

Philosophy has never been really interested in “mercy”, a word which is almost absent in the West philosophical vocabulary. The thesis of this essay is that this has happened because philosophy has considered mercy as an unthinkable issue, insofar as it implies the “concrete-living”, which is characterized by “polar oppositions” that philosophy tends to consider as alternatives. Thus, philosophy transfers the concern for the concrete-living to a mercy recognized as extraneous to its own concerns. It follows that thinking philosophically mercy can favour a change of paradigm in philosophy.

 

Sommario

Tradizionalmente la filosofia non si è mai veramente interessata alla misericordia, parola pressoché assente nel vocabolario filosofico dell’Occidente. La tesi del saggio è che ciò sia accaduto in quanto la filosofia ha ritenuto la misericordia impensabile, nella misura in cui essa si (pre)occupa del “concreto vivente”, il quale è caratterizzato da “opposizioni polari” che la filosofia tende a leggere come alternative insanabili. In que sto modo, la filosofia abbandona la preoccupazione per il concreto vivente a una misericordia che riconosce come estranea alle proprie preoccupazioni. Ne deriva che pensare filosoficamente la misericordia può favorire un cambio di paradigma filosofico.

 

La misericordia è al centro delle tre grandi religioni abramitiche.[1] Ebraismo, cristianesimo e islam riconoscono in essa uno dei nomi di Dio, il misericordioso per eccellenza: un attributo divino che il credente è dunque chiamato ad assumere come modello al quale conformare la propria condotta e la propria vita.

Eppure – sorprendentemente – la misericordia è pressoché assente nel lessico filosofico dell’Occidente, che pure alla teologia e ai testi sacri di quelle religioni tanto deve.
Non è andata così per altre categorie della tradizione teologica: è per esempio il caso della speranza, virtù teologale per eccellenza,[2] entrata – in versione secolarizzata – nel lessico della modernità filosofica e politica con Hobbes e Spinoza,[3] fino a divenire “principio” con Bloch.[4] È in parte anche il caso del perdono, che della misericordia rappresenta il banco di prova più radicale. Per millenni pressoché assente dal lessico filosofico occidentale, il perdono vi ha fatto il suo ingresso nel XX secolo, a seguito delle esperienze tragiche della storia, ma ha rappresentato una vera e propria croce per i filosofi: un oggetto – lo si vedrà – ai limiti dell’impensabile.

L’ipotesi che vorrei avanzare è che la misericordia potrebbe essere rimasta all’esterno dell’ambito di competenza della filosofia in quanto percepita come oggetto indisponibile e impensabile. In altri termini: se i filosofi hanno tradizionalmente considerato la misericordia come estranea al loro dominio di competenza, è perché hanno riconosciuto in essa qualcosa di non completamente dominabile: perlomeno nel quadro di alcune alternative del pensiero divenute canoniche. Si tratta delle alternative proprie a un dualismo di marca intellettualista che – dall’epoca assiale in avanti[5] – ha profondamente segnato gli sviluppi del pensiero occidentale.[6]

Su alcune di queste alternative – che una misericordia essenzialmente interessata al concreto vivente supera e frantuma – vorrei soffermarmi brevemente nelle pagine che seguono, senza alcuna pretesa di esaustività: l’alternativa tra interiorità ed esteriorità, tra immanenza e trascendenza, tra necessità e possibilità (tra passato e futuro), tra politico e impolitico (tra pubblico e privato).

 

Interiorità ed esteriorità

La misericordia rompe innanzitutto l’alternativa tra interiorità ed esteriorità. Essa è certamente qualcosa di interiore: rappresenta una disposizione dello spirito, una virtù, ovvero uno stile generale della persona irriducibile all’uno o all’altro dei suo atti.[7] Ma al contempo necessita sempre di un caso concreto, esistendo soltanto in presenza e nei confronti di questa persona, di questa vita, di questo dolore. Non si dà cioè misericordia a monte dell’incontro con l’altro: con il suo bisogno, la sua fragilità e vulnerabilità. La misericordia ha necessità dell’altro, del quale spesso va essa stessa alla ricerca.

Non solo: la virtù della misericordia necessita di una esperienza a monte. È cioè possibile essere soggetto attivo di misericordia soltanto se si è stati precedentemente oggetto passivo di misericordia: la disposizione interiore dell’essere misericordiosi richiede infatti l’esperienza esteriore di qualcuno che sia stato misericordioso con noi.

In questo senso, la misericordia è sempre un esercizio di autorità nei confronti dell’altro, intendendo il termine “autorità” nel suo senso etimologico e più autentico:[8] la misericordia è un esercizio esteriore che genera e libera interiormente chi la pratica e chi la riceve. Valorizza entrambi e rende liberi, capaci a propria volta di misericordia: in questo senso essa è sempre autorevole, nella misura in cui genera – ovvero precede e fonda – la soggettività, propria e altrui. Il capitolo XXI de I promessi sposi di Alessandro Manzoni ce ne offre un esempio celebre: Lucia, che si rivolge all’innominato con l’espressione divenuta celebre «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia», non si limita a porre a tema la misericordia, ma – nell’atto stesso di implorare misericordia – gli usa misericordia ed esercita un’autorità che genera a nuova vita il suo interlocutore.[9]

La misericordia impone così di rivedere le priorità e di superare il primato tradizionalmente accordato all’interiorità: un’interiorità immaginata come priva di debiti verso l’esteriorità e come “motore immobile” di questa. La misericordia attesta, al contrario, un certo primato dell’esteriorità. L’esteriorità istruisce l’interiorità, la forma, la genera: sono questa persona, questa vita, questo dolore che insegnano che cosa sia misericordia, ovvero che rendono misericordiosi e permettono di verificare se lo si sia in verità (o se invece non ci si limiti a raccontarlo a se stessi).[10] Ma, al contempo, soltanto l’esperienza (esteriore) dell’essere stati oggetto di misericordia rende possibile l’esperienza (interiore) dell’essere a propria volta soggetto di misericordia, ovvero di essere – integralmente e liberamente – soggetto. La misericordia impone così di rivedere la priorità tradizionalmente accordata all’interiorità sull’esteriorità, alla teoria sulla pratica, superando la tradizionale alternativa tra le due: non c’è interiorità senza esteriorità.[11]

 

Immanenza e trascendenza

Se la misericordia supera e vince l’alternativa tra interiorità ed esteriorità è in forza del fatto che essa rompe, prima ancora, l’alternativa tra immanenza e trascendenza.

Nella tradizione cristiana le opere della misericordia non sono semplici buone azioni: qualcosa che sarebbe certo meglio fare, ma che si può anche non fare (in termini tecnici si direbbe: degli atti supererogatori). Su questo, il capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo è chiaro: quelle opere hanno a che fare con la salvezza (o con la perdizione, eventualmente).[12] Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti (le sette opere “corporali” esplicitamente richiamate nel Vangelo), ma anche consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti (le sette opere “spirituali” riconosciute dalla tradizione): tutte queste azioni sono al contempo immanenti e trascendenti. Sono concrete e ben ancorate alla terra, ma rompono la logica “troppo terrena” di una giustizia che impone di rendere a ciascuno il suo e di un supererogatorio che suggerisce atti lodevoli ma non necessari.

Sia chiaro: la misericordia non sovverte la giustizia, piuttosto la restituisce alla sua verità. Essa mostra che rendere a ciascuno “il suo” significa restituire ciascuno a se stesso, ovvero far sì che costui possa essere pienamente se stesso: che dunque abbia veramente il suo. Rompendo la logica di un calcolo meramente retributivo, la misericordia compie così la giustizia. Ecco perché essa non può essere considerata un mero atto supererogatorio (bello ma non necessario), perché di misericordia si vive e della sua assenza si muore: essa è libera e gratuita, ma anche necessaria. In questo senso, la misericordia rappresenta certamente un “massimo” rispetto al livello “minimo” di attenzione e di rispetto che ci si deve gli uni gli altri nel considerarsi reciprocamente dei fini e non semplicemente dei mezzi: ma è un massimo in qualche modo “necessario”.

La misericordia impone così di rivedere l’alternativa secca tra immanenza e trascendenza, tra spiritualismo e materialismo, e di accettare le buone ragioni della materia, del concreto: ragioni che una rappresentazione dello spirito ricalcata sulla figura di una ragione astratta e calcolante (anche in senso retributivo) ha troppo affrettatamente considerato inaccettabili. La dimensione spirituale delle opere della misericordia è tutt’uno con la loro concretezza e materialità, persa la quale è perduta la stessa dimensione spirituale.

 

Necessità e possibilità, passato e futuro

La misericordia rompe l’alternativa tra il passato di ciò che è stato e il futuro di ciò che sarà. È ancorata al passato, che essa accetta e non rinnega, ma è strutturalmente aperta al futuro, verso il quale è rivolta. In questo senso, la misericordia è essenzialmente processuale, non statica. Si tratta di una dinamica particolarmente evidente nel perdono, il quale costituisce il caso serio della misericordia, ovvero il suo banco di prova più radicale e il suo criterio ultimo.

A seguito della tragedia della Shoah, sono molti i filosofi – soprattutto di matrice ebraica – che si sono applicati a pensare il perdono.[13] Significativamente essi hanno spesso concluso a favore di una impossibilità del perdono (Jankélévitch, Derrida),[14] o comunque di una sua natura supererogatoria e finalmente extra- e sovra- etica (Ricœur).[15]

Se importanti filosofi hanno ritenuto il perdono qualcosa di impossibile, di irraggiungibile, o comunque di impensabile, è perché essi lo hanno compreso come l’esito di una decisione istantanea e priva di condizioni (è certamente il caso di Jankélévitch e di Derrida). Un perdono essenzialmente atemporale è infatti inevitabilmente irreale: inarrivabile e inapplicabile.

Il perdono non è però mai l’esito di una decisione istantanea e immediata (ovvero priva di mediazioni). Esso è invece, al contempo, un processo e un risultato:[16] consiste nella decisione di iniziare un processo il cui risultato finale – dimenticare l’offesa e ripristinare la relazione – non è affatto garantito a monte. Più che una decisione istantanea e ineffabile (fuori dal tempo), il perdono è dunque la decisione di iniziare un processo che si dispiega nel tempo, ma il cui risultato non è affatto assicurato.

Il perdono implica e richiede tempo, a più livelli.[17] Innanzitutto, la decisione di perdonare non giunge dal nulla, ma è l’esito di un processo interiore che richiede tempo: talvolta molto tempo. La decisione stessa è poi comprensibile come la volontaria determinazione di dare tempo al perdonato: coincide con il rifiuto di fermare la sua storia personale all’istante dell’errore e della colpa. È l’avvio di un processo che dunque richiede tempo (al perdonante), ma che anche ne offre (al perdonato).

In questo senso, il perdono è comprensibile come la rinuncia a fare dell’istante della colpa il criterio per un giudizio complessivo sull’intero del tempo (di quello proprio e di quello altrui): è un dare tempo al tempo.[18] Perdonare equivale infatti a dare tempo a se stessi, rinunciando a fare del tempo della colpa (subìta) il criterio generale per un giudizio sull’intero del proprio tempo; ma significa anche dare tempo all’altro, all’offensore, rinunciando a fare del tempo della colpa (inferta) il criterio generale per un giudizio sull’intero del (suo) tempo, della (sua) storia. Tale decisione di dare tempo al tempo (proprio e altrui) richiede tempo e vive nel tempo.

La misericordia – della quale, come si è detto, il perdono costituisce il caso serio – abita dunque pienamente il tempo: assume il passato, non lo rinnega e non lo rimuove, ma lo apre al futuro. Ovvero lo consegna fiduciosamente a un futuro che essa si limita a iniziare, senza volerlo dominare. In questo si differenzia dalla vendetta, la quale pretende invece di decidere l’avvenire: di chiudere i conti con il passato stabilendo come debbano andare le cose in futuro. La misericordia accetta la necessità del passato e apre fiduciosamente alle possibilità del futuro, rinunciando a dominarle.

 

Politico e impolitico, pubblico e privato

La misericordia rompe infine l’alternativa tra privato e pubblico, tra impolitico e politico. È infatti capace di generare concrete forme di vita non solo personale, ma anche collettiva.

La storia degli ultimi decenni ha fornito esempi molto luminosi della dimensione politica della misericordia. Si pensi alla Restorative Justice, nata in Sud Africa – quale forma politica del perdono – dalle intuizioni del vescovo anglicano Desmond Tutu.[19] Secondo questo tipo di giustizia “alternativa”, la cura delle ferite personali passa da una riconciliazione tra persone che produce una riconciliazione con il passato il cui valore supera le singole persone coinvolte e mobilita un’intera comunità civile e politica: il suo passato e il suo futuro.

In Italia, proprio l’applicazione dei principi di questa “nuova” giustizia ha permesso ciò che fino a pochi anni fa sembrava impossibile: l’incontro e la riconciliazione tra gli ex esponenti della lotta armata degli anni Settanta e Ottanta e le loro vittime.[20] Quell’incontro ha non soltanto contribuito a sanare le ferite delle persone coinvolte, ma ha posto le premesse per un processo di pacificazione nazionale che si attendeva da ormai troppo tempo.

Questo carattere insuperabilmente personale ma mai esclusivamente privato della misericordia non vale però soltanto nel quadro di comunità e società di natura politica: non a caso la teologia cattolica si interroga oggi, su impulso del magistero di papa Francesco, sulla misericordia quale categoria generativa di una forma adeguata di vita ecclesiale.[21]

La misericordia è dunque sempre personale e concreta, sempre rivolta a questa persona, a questa vita, a questo dolore, ma proprio in forza della sua concretezza può divenire una categoria politica, produttiva di storia non soltanto personale, ma anche collettiva. La misericordia è una virtù e un atto personale, ma non è mai semplicemente privata.

 

L’impensabile e la rivoluzione

Difficile dire se l’inadeguatezza delle alternative qui brevemente evocate sia sufficiente a rendere ragione dell’assenza della misericordia nel lessico filosofico dell’Occidente, ovvero della sua tradizionale impensabilità.

Certamente le assenze sono eloquenti: esse hanno la forza di rivelare i limiti di un paradigma all’interno del quale ciò che è assente potrebbe esserlo per ragioni non semplicemente contingenti e rappresentare piuttosto un’anomalia strutturalmente non componibile all’interno del paradigma stesso. Un’anomalia da cui – per riprendere i termini Thomas Kuhn[22] – può tuttavia prendere avvio una «rivoluzione» che porti a un radicale cambio di paradigma.

Prendere la misura dell’inadeguatezza di alcuni schemi concettuali e di alcune tradizionali idiosincrasie può dunque certamente tornare utile per pensare la misericordia e la sua natura costitutivamente anfibia: il suo collocarsi sempre in tensione tra interiorità ed esteriorità, trascendenza ed immanenza, necessità e possibilità, passato e futuro, pubblico e privato, politico e impolitico. Ma – più radicalmente ancora – può forse tornare utile per prendere misura dell’insufficienza di un paradigma filosofico all’interno del quale la misericordia non solo non ha fattualmente trovato spazio, ma strutturalmente non avrebbe potuto trovarne.

In questa prospettiva, l’esercizio di pensare la misericordia avrebbe la forza di indicare i limiti di una forma di pensiero – di un paradigma – che oggi non soddisfa più e che richiede dunque di essere rivisto. È ciò che – ormai quasi un secolo fa – Romano Guardini aveva intuito allorché si era posto il problema di un «concreto vivente» (lebendig-Konkrete) irriducibile a un astratto reificato. Prendere in carico il concreto vivente– questa fu la sua intuizione – significa pensare per opposizioni polari (Gegensätze) irriducibili l’una all’altra e incomprensibili – impensabili – se slegate l’una dall’altra: dinamico-statico, forma-pienezza, particolare-totale, interno-esterno, produzione-disposizione, regola-originalità, immanenza-trascendenza, affinità-distinguibilità, unità e molteplicità…[23]

Ora, come si è visto, proprio il concreto vivente costituisce lo specifico oggetto di interesse della misericordia: non l’astratto, non un mero oggetto reificato, ma questo vivente qui, in carne ed ossa, nel suo particolare sviluppo e nel suo divenire, costituito da tensioni polari che una considerazione dualista tende inesorabilmente a oggettivare e separare, leggendole – appunto – quali alternative insanabili. Il risultato è chiaro: a partire da una simile prospettiva, è inevitabile che una filosofia che riconosca come proprio oggetto di interesse l’astratto reificato abbandoni il concreto vivente alle preoccupazioni di una misericordia che percepisce come a sé estranea.

Se è vero che ogni paradigma ha una sua categoria generativa – in Occidente lo sono state, nel corso della storia, le categorie di uno, di essere, di ratio… – proprio la misericordia potrebbe allora rappresentare la categoria generativa di una nuova forma di pensiero: di un nuovo paradigma che lentamente, ma inesorabilmente, sta prendendo forma sotto i nostri occhi, a partire dalla questione di un concreto vivente che costituisce il centro delle sue preoccupazioni. La domanda da porsi sarebbe allora: come pensare a partire da ciò che è stato fino ad ora impensabile?

* Dottore di ricerca in filosofia e in teologia, è professore associato di filosofia morale all’Università di Roma-LUMSA. È inoltre professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano e professore invitato presso l’Università Gregoriana di Roma. È direttore responsabile di Munera. Rivista europea di cultura (www.muneraonline.eu). Tra i suoi scritti: La poesia e le cose. Su Leopardi (Milano 2006), Saggio sull’autorità (Milano 2012), Il simbolo. Una sfida per la filosofia e per la teologia (con Andrea Grillo, Cinisello B. 2013), Presente. Una piccola etica del tempo (Cinisello B. 2014, tr.fr. Paris 2015).
[1] Riprendo qui e sviluppo alcune considerazioni precedentemente svolte in: S. Biancu, Pensare la misericordia, «Endoxa», 1, 4, 2016, pp. 7-10.
[2] Per una recente e approfondita analisi teologica della speranza nel quadro delle tre virtù teologali cfr. Ch. Chalamet, Une voie infiniment supérieure : essai sur la foi, l’espérance et l’amour, Labor et Fides, Genève 2016.
[3] Cfr. su questo R. Bodei, Geometria delle passioni: paura, speranza, felicita: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 19922.
[4] Cfr. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1959 (tr.it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Il principio speranza, Garzanti, Milano 20052).
[5] Sulla categoria di «epoca assiale» cfr. K. Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, Piper, München 1949 (tr.it. di A. Guadagnin, Origine e senso della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1972).
[6] Cfr. Gh. Lafont, Que nous est-il permis d’espérer ?, Cerf, Paris 2009 (tr. it. Che cosa possiamo sperare?, EDB, Bologna 2011).
[7] Sulla categoria di virtù cfr. R. Guardini, Tugenden. Meditationen über Gestalten sittlichen Lebens, Wekbund Verlag, Würzburg, 1963 (tr.it. di G. Sommavilla, Virtù. Temi e prospettive della vita morale, Morcelliana, Brescia 1972).
[8] S. Biancu, Saggio sull’autorità, EduCatt, Milano 2012.
[9] Cfr. su questo L. Muraro, Autorità, Rosenberg & Sellier, Torino 2013, p. 51.
[10] Cfr. S. Biancu, Le opere della misericordia. Consigliare i dubbiosi e insegnare agli ignoranti, «Munera. Rivista europea di cultura», 2/2016, pp. 45-54.
[11] Si tratta del grande tema delle mediazioni pratiche della soggettività. Cfr. su questo S. Biancu – A. Grillo, Il simbolo: una sfida per la filosofia e per la teologia, San Paolo, Cinisello B. 2013, pp. 69-99.
[12] Cfr. Mt 25, 34-46: «Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. 37Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. 40E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. 41Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. 44Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. 45Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. 46E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”».
[13] Cfr. K.-M. Kodalle, Verzeihung denken: die verkannte Grundlage humaner Verhältnisse, Fink, Paderborn 2013.
[14] Cfr. V. Jankélévitch, Le pardon, Aubier-Montaigne, Paris 1967 (tr.it. di L. Aurigemma, Il perdono, Istituto di Propaganda Libraria, Milano 1968); J. Derrida, Pardonner : l’impardonnable et l’imprescriptible, Editions de l’Herne, Paris 2004 (ed.it. a cura di L. Odello, Perdonare. L’imperdonabile e l’imprescrittibile, Cortina, Milano 2004).
[15] Cfr. P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Editions du Seuil, Paris 2000; Id., Le juste, Éditions Esprit, Paris 1995 (tr.it. di D. Iannotta di Marcoberardino, Il Giusto, SEI, Torino 1998).
[16] Cfr. A. Margalit, The Ethics of Memory, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) – London 2002 (tr.it. di V. Ottonelli, L’etica della memoria, Il Mulino, Bologna 2006).
[17] Sul tema mi permetto di rimandare a: S. Biancu, Il massimo necessario. Note per una antropologia del perdono, in: S. Biancu – A. Bondolfi, Perdono: negazione o compimento della giustizia?, FBK-Press, Trento 2015, pp. 91-108; Id., Pensare il perdono, «Munera. Rivista europea di cultura», 2015, n. 3, pp. 63-73.
[18] Cfr. su questo S. Biancu, Presente. Una piccola etica del tempo, San Paolo, Cinisello B. 2013.
[19] Cfr. D. Tutu, No Future without Forgiveness, Rider, London 1999. Sulla Restorative Justice la bibliografia è ormai sterminata. Cfr. almeno R.A. Wilson, The Politics of Truth and Reconciliation in South Africa: Legitimizing the Post-Apartheid State, Cambridge University Press, Cambridge 2001.
[20] Cfr. G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato (eds.), Il libro dell’incontro: vittime e responsabili della lotta armata a confronto, Il saggiatore, Milano 2015.
[21] Cfr. su questo S. Morra, Dio non si stanca. La misericordia come forma ecclesiale, EDB, Bologna 2015.
[22] Cfr. T. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions (1962), Chicago University Press, Chicago 19702; tr.it. di A. Carugo, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
[23] Cfr. R. Guardini, Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten, Werkkreis im Matthias-Grünewald-Verlag, Mainz 1925; tr.it. di G. Colombi, L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, Morcelliana, Brescia 1997.